La Casa del Terrore di Budapest non era in programma, con quel nome angosciante, Lollo mi aveva fatto desistere dal metterlo in lista nelle cose da vedere.
Per un caso fortuito siamo entrati.
Siamo arrivati con la Metro. La stazione di Vorosmarty Utca Station mi piace particolarmente, mi ricorda tanto una cucina, con tutte le piastrelline smaltate sui muri, e le colonne che sembrano di ferro arrugginito con tutti i bulloni a vista, mi fanno venire in mente le prime fabbriche dell’Ottocento.
Se abbiamo visitato la Casa del Terrore, è stato perché abbiamo sbagliato la fermata della Metro, saremmo dovuti scendere una fermata prima per raggiungere l’Opera, il Teatro in cui la Principessa Sissi aveva il suo palco riservato: eleganza e oro in ogni angolo, fantasticherie da principesse.
Non avevo cercato le indicazioni per raggiungere la casa del terrore, Lollo non era d’accordo, sebbene non avesse coscienza di quello che poteva essere rappresentato in questo Palazzo con un nome così truce, non voleva che ci andassimo perché Carlotta era con noi.
Sbagliando fermata, uscendo dalla stazione, cercando di orientarci sulla strada principale per trovare il teatro dell’Opera, abbiamo sbattuto contro il massiccio palazzo, colore chiaro, forma squadrata e un inquietante cornicione intagliato come uno stencil con le parole scritte a rovescio. Nessuno di noi ha capito subito, nessuno ha inteso che le parole scritte a rovescio su quel cornicione nero e lugubre erano proprio la parola TERROR ripetuta sui due lati della costruzione e intervallata da una stella a 5 punte e da una croce frecciata.
Perché scritte a rovescio? Per giocare con la luce, perché a prima vista, non tutto è come sembra.
Se non conosci la storia di Budapest, se non conosci il regime, se non sai che Comunismo e Nazismo si sono avvicendati in questa parte di mondo facendo danni l’uno più dell’altro, quella stella e quella croce frecciata probabilmente non avranno nessun significato. E allora bisogna entrare, perché dopo essere stati dentro quel massiccio palazzo, quei due simboli, accanto alla parola TERROR che si ripete sul perimetro del cornicione, saranno la miglior spiegazione e la più chiara rappresentazione di quello che questo Museo, troppo reale per essere Museo, rappresenta davvero per Budapest e l’Ungheria.
Sono combattuta, forse non ho letto abbastanza, non sono conscia di quello che si affronta entrando e con me c’è una bambina di neanche 10 anni. Non resisto, però sono qui, forse solo una volta nella mia vita, non posso perdere questa testimonianza. Convinco Lollo, sempre più scettico ed entriamo tenendola per mano.
Il primo impatto con l’inferno è forte, ma incomprensibile.
Per lei, incomprensibile: un grosso carrarmato sovietico, circondato da un pozza di olio nero che cade verso il basso.
Sulla parete le foto attaccate a collage di chi, in quel palazzo signorile, visto dall’esterno, ci è entrato, ma non ci è più uscito. C’è pace e c’è silenzio attorno a quel carrarmato usato in tempi neanche tanto lontani per reprimere le rivolte cittadine degli Ungheresi per la libertà.
Era il 1956, la mia mamma, il mio babbo erano già nati, la guerra era finita eppure a Budapest si viveva ancora sotto una cappa oscura, come l’atmosfera che si respira attorno a quel carrarmato circondato dall’olio nero come la morte che scivola verso il basso trascinando le vite di migliaia e migliaia di uomini e donne, senza nome che sono rappresentati nella parete di fronte.
Una bambina di 10 anni tenuta per mano, vede il carrarmato come un grosso giocattolo e intanto che stringe forte la mano in quest’atmosfera cupa e pesante, chiede chi sono tutte quelle persone rappresentate sul muro e perché quell’olio scorre via verso il basso. L’olio dove va?
La casa è su 3 piani e poi c’è l’interrato. Il percorso è obbligato, l’ambiente è quasi costantemente in penombra, corridoi stretti, muri spessissimi, vecchie fotografie in bianco e nero.
Lei continua a stringere forte la mano e chiede chi sono tutte quelle persone.
Per tre piani si assiste inesorabilmente al dramma di un popolo che da sempre ha subito conquiste, torture e terrore, dagli Unni ai Barbari, dai Nazisti ai Sovietici Comunisti.
Il palazzo fu scelto come sede del Partito filo-nazista delle croci frecciate e divenne luogo di crimini e torture quando lo stesso partito nel 1944 salì al potere, per poi diventare sede della Polizia politica comunista e di nuovo sede di terrore e di torture per chi non era completamente devoto al regime.
Per tutto il percorso mi ha tenuto la mano, le ho tenuto la mano, per tutto il percorso, ha chiesto chi erano quelle persone nelle fotografie, mi ha chiesto perché qualcuno tanto cattivo li aveva voluti uccidere.
La risposta non c’è. Si prova a farfugliare qualche cosa, sul potere, sul delirio, sull’onnipotenza, addirittura sulla malattia mentale di tali personaggi, ma lei non capisce. Continua a chiedere perché.
Al piano interrato ci sono le ricostruzioni delle prigioni e delle sale di tortura, ancora foto e ancora immagini, oggetti, ambienti angusti e piccoli, muri tanto, troppo spessi per evitare che le grida si sentissero da fuori. Le grida da fuori si sentivano in ogni caso. Adesso è il silenzio che urla e si sente anche da fuori guardando il palazzo signorile scelto apposta, così elegante, per non far capire cosa accadesse dietro a quei muri. Fuori non un segno, non indizio, nulla.
I percorsi angusti, la penombra, le sale degli interrogatori, le celle, gli strumenti di tortura sono stati nulla a confronto della prova di una delle stanze che più ci ha colpito. Me e lei. La parte più difficile del percorso, l’impatto più forte: ad un certo punto del percorso si entra in una stanza in cui la luce e il chiarore la fanno da padrone. Lei è quasi sollevata: finalmente si respira aria e non morte. Nella stanza c’è un percorso, delimitato da muri chiari, mattoni bianco latte, uno sull’altro.
Lei allunga un dito per toccare, non le sembrano mattoni normali sono pezzi sapone che formano muri, pezzi regolari uno sull’altro, ma non riesce ad associare, le faccio alcune domande, la conduco in un percorso mentale con le conoscenze di cui dispone e alla fine ci arriva.
Gli occhi diventano lucidi, incrocia le braccia davanti a sé, poi mi prende per mano e mi prega di fare in fretta ad andare via.
Fuori. Finito. Usciamo e andiamo all’Opera a vedere da dove la principessa Sissi guardasse gli spettacoli. Non ne parliamo più.
Non so dire se sia stato un bene, se sia stato un errore portarla lì dentro, di certo la consapevolezza dell’orrore dei regimi totalitari, l’incomprensibile onnipotenza di pochi pazzi, l’ingiustizia, la giustizia, la libertà, il vedere per non dimenticare e non ripetere gli errori li ha capiti molto bene.
E forse il prossimo viaggio sarà Auschwitz.
Le info per la visita della Terror Haza le trovate nel sito ufficiale
Le foto di questo post, purtroppo, non sono le mie. Dopo essere stata a Budapest e dopo aver scaricato le foto su un hard disk esterno che si è danneggiato cadendo, ho perso tutte le foto. Le attribuzioni di proprietà di queste immagini, trovate in rete con licenza di riutilizzo, sono indicate sotto ciascuna foto.
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